Nietzsche e il Buddhismo Zen



Quando si parla di Nietzsche, immediatamente si associa quaesto nome al teorico del nazismo. Già da diversi anni, a partire da Giorgio Colli, c'è stata una revisione del suo pensiero. Se ormai sappiamo che "Volontà di potenza" è stato modificato dalla sorella in senso antisemitico, bisogna però anche abituarsi a non interpretare i concetti più famosi (volontà di potenza, oltreuomo, grande salute...) alla lettera. 

Nietzsche voleva dirci tutt'altro. 

La volontà di potenza non è sete di dominio, ma capacità psico fisica ed energetica, l'oltreuomo non è il Superman dei fumetti, la grande salute è sinonimo di virtù che dona. Però è anche vero che Nietzsche era schizofrenico, misogino, era una persona terribile...

Secondo Jung è impazzito perchè ha unilateralizzato la coscienza verso l'oltreuomo, si è identificato con Dio. Ma per superare bisogna anche passare attraverso l'ultimo uomo (pensate al funambolo e la pagliaccio dello Zarathustra). Vi propongo un confronto tra la filosofia di Nietzsche e il buddhismo zen. 

Nietzsche non raggiunge l'oltreuomo, ma lo zen sì, perchè lo zen passa attraverso la dissoluzione del tutto... 




Nietzsche e il buddhismo zen 

Secondo Andler « il n’y a pas croyance religieuse que Nietzsche ait étudié plus passionément que le buddhisme ». 

Vi è però un’oscillazione da parte del Nostro nel valutare il buddhismo :
• “Umano, troppo umano”: mentre il cristianesimo implica una giustizia verso di sé tale da esigere anche la vendetta verso se se stessi, nel buddismo l’amore di sé implica anche il perdono, cosa che nel cristianesimo può essere concessa solo da Dio.
Ma c’è di più: perdonarsi nel buddismo significa conoscersi al di fuori di ogni giudizio morale. (In realtà manca il concetto di peccato…) Il buddismo è quindi la religione dell’autoredenzione, che privilegia l’aspetto teoretico-conoscitivo versus l’interesse moralistico cristiano (C’è da sottolineare che Nietzsche disprezzava la tradizione cristiana da S. Paolo, non la figura di Cristo, con cui si identificava nei momenti di schizofrenia)
 “Genealogia della morale”: Il buddismo, così come il cristianesimo, nasce da una malattia della volontà. Non solo, ma nel suo tentativo di superare ogni dualismo, non fa che ripristinare le dicotomie. Infatti, giungendo ad una condizione spirituale che supera ogni dualismo, questa condizione viene considerata migliore di altre… 
 “L’anticristo”: il buddismo è più realistico del cristianesimo, è la sola religione veramente positivistica che ci mostri la storia. Implica l’a-moralismo (il moralismo esiste solo dove ci sono dualismi), è lontano dal ressentiment del cristianesimo, predilige uno stile di vita impostato ssul libertinage, è una religione per epoche avanzate. Il buddismo non promette e mantiene, il cristianesimo promette tutto e non mantiene niente. (In scritti contemporanei però il buddismo è una catastrofe nichilistica)
Elementi comparabili tra Nietzsche e il buddismo zen

Prima vorrei far notare una cosa, e cioè che per lo zen non c’è bisogno di rifugiarsi 10 anni sulle montagne come Zarathustra per raggiungere l’lluminazione: questa può essere raggiunta ovunque, una volta passati attraverso la passione dell’io ed aver cancellato ogni dualismo tra soggetto e oggetto
Nietzsche : Abbiamo inventato la nozione di sostanza, perché ci pensiamo come tali.   Ma la sostanza non esiste, l’ego empirico deve passare attraverso la sua dissoluzione e aprirsi al campo infinito di possibilità. “Dovete avere il caos il voi per partorire una stella danzante”, laddove la stella danzante è simbolo di completezza e il caos è inteso in senso etimologico, come apertura infinità di possibilità 
Zen: Buddha critica la nozione di atman come sostanza. Bisogna rinunciare alla sostanzialità dell’io. 
Il Tao è il vuoto che si identifica con un’incommensurabile condizione di evenienza per infinite possibilità. Non solo non esiste un Io- sostanza, ma nemmeno una realtà esterna all’Io, perché noi siamo dentro la realtà
Nietzsche: La dottrina dell’eterno ritorno, l’essenza intesa come Divenire, la volontà di potenza che è accettazione del proprio potis-esse e partecipazione al gioco cosmico, amor fati, negano la finalità dell’azione, che è al di là del bene e del male.  
Zen: Critica alla finalità. “l’atto perfetto non ha risultato. Perché? Perché non c’era l’attore” 
Nietzsche: Virtù che dona: virtù che scaturisce da una sovrabbondanza energetica, e che dona questo surplus di energia, così come il sole, la terra, la fontana… Però non si aspira alla virtù che dona, bensì si tende ad essa. L’essere oltre uomo o superuomo dipende dal nostro quantum energetico e solo chi ha alta energia può godere di grande salute, può avere in sé la virtù che dona. Non c’è gerarchia morale tra la virtù che dona e le virtù mescine, le virtù oppiacee, perché sono legate al nostro potis-esse e ognuno non può che essere ciò che è (critica al concetto di libertà) 


Zen: Azione eccellente: azione che, in piena autonomia riesce ad esprimere il massimo e il meglio delle capacità di chi la compie
Nietzsche: “Capire l’egoismo in quanto errore! L’opposto non è affatto l’altruismo, che sarebbe amore per altri presunti individui. No! Al di là di me e di te! Sentire in modo cosmico! 
Zen: L’egoismo è un errore gnoseologico, prodotto da una miopia incapace di scorgere che l’ego è una finzione 
Nietzsche: Eterno ritorno come divenire del divenire medesimo, come attimo immenso in cui tutto appare di nuovo, in eterno, tutto intrecciato, incatenato, passato, presente e futuro. 
Zen: Satori: interconnessione universale di ogni cosa, di ogni momento 
La risata in Nietzsche è simbolo di non attaccamento a qualcosa (v. il pastore che ride dopo aver staccato la testa del serpente, cioè dopo essersi liberato della versione circolare e semplicistica dell’eterno ritorno). Per questo è importante saper ridere di se stessi, cioè saper essere distaccati da quell’ego che non esiste se non come pluralità di ego 
Zen: Wu wei: non azione. “Non vincolatevi a nessun oggetto, ma tenetevi in alto, andate avanti, restate liberi”. Non bisogna nemmeno essere attaccati al raggiungimento della liberazione… Bisogna farsi vuoto
N.B. Per il buddismo zen, quando ci si trova davanti ad un’alternativa binaria, a possibilità di risposte solo dualistiche, bisogna passare oltre…

Dethlefsen - Corpo, Anima e Spirito


Per approfondire: Thorwald Dethlefsen  
Il destino come scelta - Edizioni Mediterranee

Perché: Come in alto, così in basso.

Il corpo



Il corpo - nell’uomo vivente – si distingue dalla semplice somma delle sostanze chimiche di cui è composto, in quanto a tutte sottostà (ovvero: su tutte sovra-sta) un’idea comune che contribuisce a formare il concetto globale “uomo”.

Questo fatto non è ovvio. Molto più ovvio è quanto possiamo osservare quando un corpo va in putrefazione: tutte le componenti chimiche seguono le leggi loro proprie (la loro propria volontà) e non soggiacciono a nessuna concezione globale.


Se questo però avviene nell’uomo vivente, questo significa che in lui deve essere all’opera una istanza che possiede l’autorità sufficiente a coordinare le differenze materiali.


Questa istanza deve essere tipica dell’uomo vivente, in quanto nel morto non la ritroviamo più.


Sul piano materiale è noto che quando un individuo muore non scompare niente.


Di conseguenza l’istanza che andiamo cercando non può essere di natura materiale, perché se il criterio essenziale di questa istanza è la capacità di coordinare la materia, difficilmente avrebbe potuto - essa stessa - essere materia.


Chi ha assistito all’accadere della morte sa che quando uno muore la coscienza e la vita di chi muore si dissolvono. E’ ipotizzabile che l’istanza che andiamo cercando corrisponda ad uno di questi due “concetti”.




L’anima

Ma cos’è allora la coscienza? L’uomo è consapevole di se stesso. Egli sperimenta se stesso come individuo che è - e che percepisce - dalla nascita fino alla morte. Questa coscienza costituisce una continuità che il corpo – il quale continuamente distrugge e costruisce cellule - non possiede.


Un concetto diverso, più antico è l’anima. Anima significa coscienza, individualità, è istanza che riunisce e trasforma in unità le diverse componenti materiali del corpo e le coordina. L’anima è una istanza autonoma, che si distingue qualitativamente dal corpo materiale.


La nostra moderna psicologia non conosce purtroppo - ancora - l’anima. Ha creato una terminologia specialistica che crea l’impressione di sapere tutto dell’anima, delle sue profondità e dei suoi livelli, ma in realtà la psicologia non è riuscita – fino ad ora – neppure a stabilire un contatto con l’anima umana.


La psicologia indaga nell’uomo l’elemento psichico, ovvero il manifestarsi dell’anima. Tuttavia questo elemento non è l’anima, ma il prodotto di questa stessa scienza. 

Confondendo questi due concetti, la psicologia ritiene che la funzione dell’anima umana sia un prodotto del cervello e di un sistema nervoso intatto, e ne deduce che con la perdita dei presupposti materiali anche l’anima cessi di esistere.



Quando noi parliamo di anima o coscienza, intendiamo una istanza autonoma, non materiale, che non è un prodotto o un derivato della materia – come cervello, sistema nervoso e simili – né dipende in qualche modo da essa.

Le religioni, gli iniziati ed i mistici sanno da sempre dell’esistenza di quest’anima e della sua sopravvivenza alla morte fisica.


La psiche, ovvero l’anima della psicologia - compresa la psicologia del profondo - non coincide con il concetto sopra esposto, ma soltanto con i suoi prodotti di eliminazione.





La psiche - l’anima della psicologia – è il luogo degli impulsi, delle paure, dei conflitti e dei complessi, un concetto globale che esprime alcune manifestazioni dell’anima, mai chi agisce, cioè l’anima in se stessa che si manifesta.


Si suppone che chi agisce sia localizzato nel cervello e nel sistema nervoso centrale. Ma allora chi induce il cervello ed il sistema nervoso a lavorare? La scienza sa che la materia necessita sempre di una informazione per poter essere attiva e le informazioni tuttavia non sono materiali.


Occorre infatti ricordare che ovunque, in natura - dove si svolgono processi di configurazione – deve essere presente l’informazione, cioè la coscienza o l’anima. Nell’ambito terrestre - la dimensione della materia – l’anima ha bisogno di un latore materiale, che tuttavia è di natura sottile e di qualità diversa.





Gli esperimenti condotti da Harold Saxon Burr, professore alla Yale University, sui campi elettrici che circondano gli organismi viventi, hanno evidenziato che intorno ad un chicco di grano è presente un campo avente la forma della pianta matura cresciuta – ed intorno ad un uovo di rana un campo avente la forma del corpo di una rana adulta: un campo aurico di informazioni.


Ogni nuova cellula trova il suo posto in queste immagini invisibili, ma misurabili. Questi risultati sperimentali confermano il concetto esoterico secondo cui tutti gli esseri viventi si sviluppano e si evolvono secondo una forma predeterminata, un ordine implicito di livello superiore.

La vita

Dopo avere enunciato i concetti di corpo e di anima, resta un concetto molto importante, cioè la vita. 


La vita non può essere sinonimo di coscienza, in quanto già il linguaggio differenzia mancanza di coscienza e morte. La vita non consiste neppure nella materia, perché le espressioni della vita si manifestano – si rendono visibili – nell’ambito della materia.

La vita è, per l’uomo, il più grande dei misteri. Se già l’anima è ignota alla scienza, ancor più lo è la vita nel suo autentico significato. La scienza è in rapporto con essa semplicemente con i suoi effetti materiali, ma la vita in se stessa non la conosce. 




L’uomo non può produrla e non può distruggerla.  
La vita è una qualità che sfugge completamente ai suoi approcci ed alle sue analisi. 
Ognuno conosce per sentito dire la classica tripartizione: corpo, anima e spirito.  
La filosofia ermetica insegna che lo spirito è vita.  
La vita – lo spirito – contrariamente all’anima, è impersonale, anonima.  
C’è soltanto uno spirito, una vita. 
Quando lo spirito agisce attraverso di noi, allora si vive.  
Terminata la vita - l’esperienza terrestre - si conclude semplicemente questo rapporto, ma la vita non viene affatto distrutta.
C’è soltanto uno spirito e quindi anche la vita dentro di noi rappresenta una unita, la “scintilla divina” di un fuoco permanente che esiste contemporaneamente e sempre, in ogni essere vivente. 

L’uomo - come qualsiasi altro prodotto della natura – consiste di corpo, anima e spirito.


Egli vive se stesso come unità e chiama questa unità  “io”


Osservando attentamente questa unità corporea “uomo” si può notare che esso è composto da altre unità, come gli organi. Altrimenti non si potrebbe distinguere un cuore da un fegato. Questa funzionalità individuale presuppone anche che ogni organo possieda una coscienza individuale.


Questo pensiero può parere insolito, dato che noi attribuiamo sempre e solo a noi stessi una coscienza. La maggior parte degli uomini è disposta a concedere una coscienza al proprio cane, sebbene questa coscienza del cane sia indubbiamente diversa da quella dell’uomo.


Attribuire una coscienza ad una mosca appare tuttavia più problematico, anche se sorge spontaneo chiedesi come mai si debba operare una simile distinzione. Tutto ciò che si evolve vivendo e mostra una sua individualità ha una coscienza, anche se talvolta abbiamo difficoltà a percepire la nostra coscienza insieme a quella di altre forme di vita.


Bene o male dobbiamo concedere anche ai nostri organi questa “coscienza”. Il fegato sente se stesso come unità ed individualità chiusa in se stessa. Il suo compito – secondo ‘ordine implicito – è solo quello di compiere unicamente le sue prestabilite funzioni di fegato, altrimenti l’individualità “uomo”, al esso preposta e nella quale il fegato è integrato organicamente, ne soffrirebbe.

Osservando attentamente l’individuo fegato, ci imbattiamo nella dualità. Esso è autopoietico, vive e può riprodursi, possiede quindi – senza alcun dubbio – una coscienza, sente di esistere. Il suo compito è di essere in tutto e per tutto una unità, una cellula epatica.


Se questa situazione non soddisfa, se vive nel disagio, la sua coscienza e scopre un desiderio di libertà, si trasforma in cellula tumorale, in quanto abbandona l’ordine implicito prestabilito,


L’uomo che si trova ad avere in sé queste cellule anarchiche non se ne rallegra di certo anzi, cerca di eliminarle per garantire a se stesso la propria esistenza. 


Come la cellula – in quanto individuo – è parte organica dell’individuo maggiore costituito dall’organo e l’organo a sua volta è parte dell’individuo uomo, così anche l’uomo è parte di una unità maggiore.




L’uomo è soltanto una cellula di un organismo che chiamiamo umanità (umani in unità) che a sua volta è partesi un organismo che chiamiamo pianeta terra. Come tutti i pianeti, anche la terra ha una intelligenza individuale e possiede non solo un corpo, ma anche una coscienza. Se questo non accadesse non avremmo un corpo planetario intatto, bensì un cadavere di pianeta.


In altre parole possiamo considerare non soltanto le forme corporali di manifestazione. Ogni corpo, sia esso sasso, pianta o animale, possiede un’anima e uno spirito, altrimenti avremmo avanti a noi un cadavere, che ben presto abbandona la sua forma originaria.


Anche un pianeta è soltanto un organo di un essere vivente più grande, il sistema solare, e così via. Se l’uomo considera un po’ quest’ordine implicito e lo osserva con attenzione, si rende ben presto conto che egli stesso, in quanto cellula di un organismo superiore, deve solo adempiere ad un compito, cioè compere il servizio che gli è stato affidato nell’universo.


L’uomo deve vivere secondo questo e fare del suo meglio per essere una cellula - una unità organica - il più possibile utile a questo ordine implicito, così come egli si aspetta che facciano le cellule del corpo in cui vive, altrimenti lui stesso diventerà una cellula tumorale di questo mondo.

Se egli abbandona volontariamente quest’ordine per assaporare – secondo il libero arbitrio – questa malintesa libertà, non dovrebbe meravigliarsi di venire eliminato.

Perché: Come in alto, così in basso.


Per approfondire: Thorwald Dethlefsen - Il destino come scelta - Edizioni Mediterranee, pagg. 26-31